C’è qualcosa di speciale che succede quando un talento trova il proprio elemento. Per Renato Paratore, quel luogo è stato Dubai. È stato lui stesso a dirlo, dopo la straordinaria doppietta di vittorie nell’UAE Challenge e nell’Abu Dhabi Challenge, che sentiva gli Emirati come una seconda casa. Ma come può un luogo — con il suo clima, la sua cultura, la sua energia — influenzare le prestazioni di un atleta d’élite? In questo articolo esploriamo il legame profondo tra identità, geografia del talento e adattamento interculturale attraverso gli occhi e la carriera di un golfista italiano diventato vincente negli Emirati Arabi.
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Un’erba diversa sotto i piedi, un cielo più nitido sopra la testa
Quando si parla di sport e alte prestazioni, tendiamo a immaginare allenamenti, tecnica e talento come ingredienti principali. Raramente, però, diamo abbastanza peso a un elemento sottovalutato ma cruciale: il contesto. Ed è proprio il contesto che ha reso gli Emirati Arabi, e in particolare Dubai, un alleato silenzioso ma potente per la rinascita sportiva di Renato Paratore.
Paratore, golfista romano classe 1996, ha sempre avuto uno stile personale e una sensibilità tecnica notevoli. Ma è negli Emirati che, per sua stessa ammissione, ha trovato le condizioni ideali per esprimersi al meglio: “Conosco bene i campi, sono abituato all’erba e alle condizioni climatiche, che possono mettere a dura prova anche il miglior golfista.” La frase, pronunciata ai microfoni di circolodelgolf.it dopo la vittoria dell’Abu Dhabi Challenge, racchiude più di quanto sembri.
L’erba nei campi da golf degli Emirati è diversa da quella europea: spesso più rigida, adattata a climi secchi, con rimbalzi e reazioni che richiedono uno stile più aggressivo, più fluido, più flessibile. Paratore, vivendoci, ha interiorizzato questo linguaggio non verbale del terreno. Ha imparato a leggere il vento tra i palmeti, a misurare la temperatura che cambia la densità dell’aria e, quindi, la distanza reale dei colpi. È il golf portato al suo livello più tattile: dove la performance nasce non dalla teoria, ma dall’intimità con un luogo.
A questo si aggiunge il clima. Caldo, secco, stabile. Nessuna pioggia improvvisa, poche variazioni drammatiche. Un ambiente che, per chi sa sfruttarlo, diventa un alleato nel trovare costanza e ritmo. E proprio ritmo e costanza sono le due parole con cui Paratore ha descritto le sue due settimane vincenti negli Emirati:
“Sono riuscito a mantenere un ritmo di gioco e una concentrazione molto costanti.”
Ma non è solo questione di sole e sabbia. C’è qualcosa di più profondo, legato all’identità e alla percezione di sé. Quando un atleta si trova in un luogo che sente familiare, in cui può “respirare bene” e percepire un allineamento tra interno ed esterno, cambia tutto. La fiducia cresce. La mente si apre. Il corpo risponde. E anche il talento, che non era mai scomparso, ritorna alla luce, finalmente accolto da un ambiente che lo esalta.
Dubai come contesto mentale: l’eccellenza è la norma
Chi non è mai stato a Dubai potrebbe pensare che sia solo una città verticale, fatta di grattacieli, deserti e lusso esibito. Ma per chi la vive da dentro — come Renato Paratore durante la sua permanenza negli Emirati — Dubai è anche un campo di addestramento mentale. Un luogo dove l’eccellenza non è l’eccezione, ma lo standard implicito. Dove ogni taxi profuma di cuoio, ogni viale è disegnato come una passerella, ogni coffee shop si trasforma in ufficio operativo. E questo incide — eccome se incide — sulla mente.
Dubai non si limita a ospitare: ti modella. Ti costringe a pensare veloce, ad agire meglio, a ricalibrare le tue abitudini sul ritmo di un luogo che sembra sempre tre passi avanti. Se sei un professionista, questa pressione può spaventare o potenziare. Se sei un atleta come Paratore, ti cambia il mindset. Inizi a concepire l’allenamento come precisione chirurgica, la gara come momento performativo totale, e la gestione mentale come asset primario.
Renato lo ha detto chiaramente: “Avendoci vissuto, li sento ormai come una seconda casa.” Ma questa familiarità non nasce solo dalla residenza. È una simbiosi culturale. A Dubai, chi si adatta prospera. Chi si ferma, scompare. E un golfista, che per mestiere deve convivere con l’instabilità — del vento, dell’umore, del risultato — trova in questo ambiente un’analogia potente. Un modello.
Dubai ti insegna che ogni dettaglio conta: l’angolo del bastone, il tempo d’attesa tra due swing, la qualità della respirazione prima di un putt. Ma ti insegna anche a riformulare il tuo rapporto col successo. Non più qualcosa da inseguire, ma uno stato da mantenere con disciplina costante. In questo, la città e lo sport si somigliano.
Il clima mentale degli Emirati è fatto di performance e pressione, ma anche di visione e ambizione. E non è un caso che proprio in questo contesto Renato Paratore abbia ritrovato la sua migliore versione. Nonostante la distanza dall’Italia, o forse proprio grazie a essa, ha potuto risintonizzare il proprio ritmo su un battito più audace e internazionale.
Per molti atleti italiani, vivere all’estero è una sfida. Per Paratore, è stata una leva. Non ha dovuto scegliere tra Roma e Dubai. Ha scelto entrambi. E ha saputo cogliere, nel vivere tra due mondi, la possibilità di elevarsi oltre i confini abituali. Di pensare più in grande, senza perdere il proprio stile.
Il talento migrante di Renato Paratore
C’è una parola che ritorna spesso quando si osservano atleti come Renato Paratore: adattabilità. Ma questa non è una qualità accessoria. È una risorsa strategica, un vero e proprio asset competitivo. E non vale solo per chi pratica sport ad alto livello. Nell’epoca della globalizzazione accelerata, saper cambiare pelle — restando sé stessi — è forse la qualità più importante per chiunque voglia emergere in un contesto internazionale.
Paratore lo dimostra con naturalezza. Da romano doc, si è fatto “adottare” da Dubai non come turista, ma come residente, allenandosi e vivendo a lungo in un contesto che, in apparenza, sembrerebbe lontano anni luce dal suo ambiente originario. Invece, ha saputo costruire una sintesi personale. L’identità fluida non significa perdere le radici, ma piuttosto saperle far crescere anche in un altro terreno.
Per un atleta, questo può voler dire familiarizzare con condizioni atmosferiche estreme, tipi d’erba diversi, ritmi di gioco differenti. Per un professionista, può significare comprendere il linguaggio implicito del business locale, i codici di comportamento, le aspettative di chi ti circonda. Per un imprenditore, significa pensare in doppia lingua, fare strategia con più fusi orari e più modelli culturali sulla stessa mappa mentale.
Il golf è spesso considerato uno sport statico, ripetitivo, quasi rituale. Ma è in realtà una delle discipline più sottilmente esigenti dal punto di vista psicologico: richiede presenza, adattamento, autocontrollo. In questo, diventa quasi una metafora della vita. E il successo di Paratore, oggi, è la dimostrazione che un’identità forte è quella che sa muoversi, cambiare, respirare tra due mondi — senza mai perdersi.
Dubai non è più solo un luogo dove si gioca bene a golf. È una scuola, un acceleratore, un laboratorio in cui la pressione si trasforma in precisione. E Renato Paratore lo sa. Come lo sanno tanti giovani professionisti italiani che oggi scelgono gli Emirati per formarsi, crescere, confrontarsi.
Nel suo swing, oggi più sicuro e lineare che mai, c’è forse una risposta semplice a una domanda complessa: cosa succede quando l’identità incontra l’occasione giusta?