Ciao, sono Enrico Cucinotta e da oltre dieci anni mi occupo di trasformare la gestione fiscale e operativa di imprese italiane, puntando su azioni pratiche e risultati misurabili nei conti correnti, non su normative e burocrazia fine a se stessa. Ho avuto il privilegio di guidare più di cinquecento aziende verso profitti incrementati fino al 75% e un abbattimento fiscale medio del 47%, grazie al supporto di un team multidisciplinare di oltre quaranta professionisti dello Studio Daniele Pescara Consultancy. La mia esperienza mi porta spesso anche oltre i confini italiani, con un focus sull’espansione a Dubai e negli Emirati Arabi Uniti, e come Auditor contribuisco all’eccellenza certificata delle imprese. Negli ultimi tempi, curando personalmente queste aziende, mi sono imbattuto in un filo conduttore costante: una lamentela persistente, quasi un mantra, che risuona da nord a sud, dalla Val d’Aosta alla Sicilia, da Trieste a Cagliari. L’affermazione è sempre la stessa: “In Italia non si può più lavorare”.
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Questo dibattito sulla fattibilità dell’impresa nel nostro Paese è perenne, alimentato da un misto di frustrazioni reali e, talvolta, di reticenze all’adattamento. È fuor di dubbio che alcuni settori, come l’edilizia e quello dei materiali (materie prime, metallici, ferrosi), si trovino a fronteggiare ostacoli significativi. La burocrazia, una tassazione elevata, un quadro normativo complesso, l’accesso talvolta farraginoso al credito bancario e una concorrenza estera aggressiva sono problemi concreti che ogni giorno mettono alla prova la resilienza degli imprenditori italiani. Secondo i dati della Banca Mondiale, per esempio, l’Italia si posiziona costantemente al di sotto della media europea per la facilità di fare affari, specialmente per l’apertura di nuove attività e la gestione dei permessi.
Nonostante queste difficoltà innegabili, l’affermazione che “non è vero che in Italia non si possa più lavorare” emerge con forza. Spesso, questa frase si trasforma in una comoda scusa, un alibi che l’imprenditore utilizza per giustificare una mancanza di iniziativa o la riluttanza a esplorare nuove soluzioni. Per ogni dieci voci che si adagiano su questa lamentela, ce ne sono infatti uno, due o tre che, con determinazione e spirito d’adattamento, riescono a scovare nuove opportunità e a tracciare percorsi di successo. La pressione esercitata dalle banche, meno inclini a concedere finanziamenti o prestiti a meno di uno storico di comprovata solvibilità, aggrava un quadro già complesso, ma non giustifica un’immobilità strategica.
L’Italia, in questa metafora potente, viene paragonata a una “madre severa che non ce la sta facendo e che di conseguenza tarpa le ali ai propri figli”: i cittadini, gli imprenditori, i lavoratori che cercano di fare qualcosa di buono. Questa analogia, di disarmante chiarezza, descrive un ambiente dove talenti innati – nello sport, nella musica, nello studio, nel lavoro – faticano a sbocciare perché soffocati da un contesto che non li supporta o, peggio, ne mina le ambizioni. Se la via della crescita non è agevole nel proprio paese d’origine, la ricerca di alternative diventa non solo una possibilità, ma un’esigenza per la sopravvivenza e la prosperità dell’impresa. In un mondo globalizzato, limitarsi ai confini nazionali significa spesso precludersi opportunità vitali.
La resilienza imprenditoriale e l’accesso al credito
La costante lamentela secondo cui in Italia “non si può più lavorare” trova radici in difficoltà strutturali innegabili, che vanno dalla pressione fiscale elevata alla complessità della burocrazia. Secondo Eurostat, il carico fiscale complessivo in Italia, pur variabile, si mantiene tra i più alti d’Europa. Un dato che incide direttamente sulla competitività delle imprese, specialmente piccole e medie. A ciò si aggiunge la questione dell’accesso al credito: le banche italiane, operando in un contesto di prudenza rafforzata, mostrano una tendenza a privilegiare aziende con uno storico finanziario consolidato e una comprovata solvibilità. Questo rende spesso arduo per nuove iniziative o per imprese in fase di ripartenza ottenere i finanziamenti vitali per la crescita. Il Fondo Monetario Internazionale ha più volte evidenziato come le restrizioni al credito per le PMI possano frenare la produttività e l’innovazione in economie mature.
Gli Emirati Arabi Uniti: un ponte strategico per l’internazionalizzazione
Se le opportunità diventano scarse nel paese d’origine, la soluzione non è la rassegnazione, ma l’internazionalizzazione. Gli Emirati Arabi Uniti, e Dubai in particolare, emergono come una delle destinazioni privilegiate per gli imprenditori italiani che cercano nuovi orizzonti. Non si tratta di una scelta casuale, ma di una mossa strategica dettata da vantaggi concreti e verificabili. Gli EAU si posizionano come un “ponte” commerciale e logistico naturale tra Asia, Africa ed Europa. Questa posizione geostrategica è supportata da infrastrutture di trasporto e comunicazione di prim’ordine, come il porto di Jebel Ali e l’aeroporto internazionale di Dubai, che facilitano scambi con un mercato di oltre 3,5 miliardi di consumatori. Secondo l’Agenzia ICE, il valore dell’export italiano verso gli EAU ha mostrato una crescita costante negli ultimi anni, superando i 5 miliardi di euro nel 2023 e consolidando la posizione degli EAU come partner commerciale chiave.

Al di là della posizione geografica, gli Emirati Arabi Uniti offrono un ambiente economico con specifiche giurisdizioni fiscali favorevoli, specialmente nelle numerose zone franche. In molte di queste aree, le imprese godono di aliquote fiscali pari a zero sul reddito delle società per un periodo prolungato e l’assenza di imposte sul reddito personale, a patto che operino al di fuori del mercato locale principale o rispettino specifici requisiti di sostanza economica. Questa fiscalità attrattiva si combina con costi operativi complessivamente inferiori rispetto a molte economie occidentali. La manodopera, pur qualificata, può avere costi più contenuti. L’energia, grazie alle risorse locali e a politiche di prezzo competitive, incide meno sui bilanci aziendali. Similmente, i costi di importazione e di acquisizione clienti tramite marketing e processi commerciali si rivelano spesso più efficienti. Questo permette alle imprese di competere evitando la “guerra al ribasso” sui prezzi, un fenomeno che in Italia è esacerbato dalla concorrenza internazionale.
L’ambiente imprenditoriale a Dubai è inoltre caratterizzato da un robusto networking e da un’aria di dinamismo che favorisce la crescita. Eventi internazionali, fiere settoriali e la presenza di una comunità imprenditoriale diversificata creano opportunità uniche per la collaborazione e l’espansione. È un contesto che, pur richiedendo un investimento in termini di tempo e denaro – perché “nulla è regalato” e nessun governo estero “tirerà fuori i soldi per gli imprenditori” – offre gli strumenti per trovare nuovi clienti paganti, ampliare il proprio mercato e superare le barriere percepite nel paese d’origine. La scelta di internazionalizzarsi diventa quindi non una fuga, ma un atto di visione strategica.
La narrazione secondo cui “In Italia non si può più lavorare” si rivela, ad un’analisi più profonda, un prisma attraverso il quale si riflettono sia le difficoltà concrete sia, con altrettanta chiarezza, una certa riluttanza al cambiamento. Se è innegabile che il contesto italiano presenti complessità in termini di burocrazia, fiscalità e accesso al credito – fattori che rendono la vita più dura agli imprenditori – è altrettanto vero che la resilienza e la capacità di trovare nuove “vie” distinguono chi si arrende da chi prospera.
La scelta di guardare oltre i confini nazionali, in particolare verso mercati come quello degli Emirati Arabi Uniti, non è una fuga, ma un atto strategico. Dubai, con la sua posizione di ponte tra continenti, la sua giurisdizione fiscale favorevole e i costi operativi competitivi, offre un laboratorio di opportunità. Qui, la “guerra al ribasso” sui prezzi, tanto temuta in Italia, può essere evitata, permettendo alle imprese di competere su valore e innovazione. Certo, l’internazionalizzazione richiede investimenti, in tempo e denaro, e non ci si può aspettare aiuti di stato “regalati”. Questo è un punto cruciale: la crescita all’estero è frutto di una visione chiara e di un impegno concreto.
In definitiva, il messaggio è un appello alla responsabilità individuale dell’imprenditore. Il successo o il fallimento, in questa prospettiva, dipendono in ultima analisi dalla volontà di agire e di non cedere alla tentazione della scusa e dell’abitudine a considerare il proprio mercato ristretto ad un territorio. L’imprenditore, con la sua determinazione, è l’unico vero artefice del proprio destino, capace di trasformare le percepite impossibilità in nuove, concrete opportunità. Lo so perché ne affianco molti ogni anno sulla via per la crescita oltre confine.