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Oltre l’algoritmo con Alessandro Baldini: il nuovo umanesimo industriale

Tempo di lettura : 10 minuti

Nel mondo della produzione avanzata, dove ogni errore si misura in millisecondi e ogni decisione vale milioni, Alessandro Baldini – ingegnere di processo con oltre vent’anni di esperienza internazionale – propone un modo radicalmente diverso di guardare alla fabbrica: come a un organismo vivente, dotato di mente propria. In Oltre l’algoritmo, Baldini apre un dialogo inedito tra uomo, macchina e intelligenza artificiale, delineando un “nuovo umanesimo industriale” in cui l’ingegnere torna a essere il cuore pensante del sistema. Non più un tecnico, ma un interprete della complessità.


Il dottore dei processi

In questo articolo apriamo una finestra speciale, quella con Alessandro Baldini e un’intervista che lo vede protagonista, ideata insieme per capire dove stiamo andando: Baldini spiega la sua visione di un futuro in cui la tecnologia non sostituisce l’uomo, ma lo costringe a ridefinirsi. In un momento storico in cui l’intelligenza artificiale attraversa ogni settore, dal management alla produzione, la riflessione di Baldini arriva come una bussola — e mai come oggi, nel contesto di Dubai e della nuova economia globale, risuona attuale.
L’ingegnere di processo diventa così il simbolo di una trasformazione più ampia: quella dell’uomo che, dentro i sistemi che costruisce, continua a cercare un senso, un ritmo, una forma di coscienza condivisa.

Partiamo da qui, dall’ingegnere di processo, un ruolo che tu conosci bene perché lo hai vissuto in prima persona per molti anni, in ultimo alla Northvolt. Ne parli in modo particolare, fuori dagli schemi convenzionali, come se fosse qualcosa di più di una funzione tecnica. Con la tua esperienza di oltre vent’anni nel settore, ce ne puoi parlare?

Alessandro Baldini

Forse ti riferisci all’idea dell’ingegnere come medico. Sì, è una similitudine che uso spesso, e che per me descrive bene la realtà del lavoro.
Vivendo a lungo in fabbrica capisci che non è costituita solo da macchine, ma anche da ritmo ed  equilibrio. Ogni processo ha una pulsazione, e quando qualcosa cambia lo percepisci, come un medico avverte un’alterazione nel battito di un paziente. L’ingegnere non si limita a leggere i numeri generati dai processi in azione: ascolta come il sistema respira, osserva dove perde energia, dove soffre.
Il suo compito non è soltanto riparare, ma soprattutto restituire equilibrio a un sistema che è come un organismo e che comunica attraverso le proprie deviazioni.

Da come ne parli, il suo lavoro è quasi una forma di indagine, una ricerca delle cause nascoste dietro ciò che accade in superficie. Come si svolge, in pratica, questa ricerca?

Con la pratica, la pazienza e l’ascolto. Le cause non si rivelano mai subito.
Ogni deviazione, ogni difetto è un segnale da interpretare, una traccia che rimanda a un’origine più profonda. L’ingegnere deve imparare a risalire a quelle radici, le root cause, collegando elementi tecnici, materiali e umani.
Solo quando trovi la causa reale puoi ristabilire l’equilibrio del processo, come farebbe un sistema immunitario che riconosce l’anomalia e la corregge.

Quindi la fabbrica, man mano che si connette e integra i propri sistemi, diventa capace di una sorta di attenzione diffusa, come se avesse forma di intelligenza propria?

Credo di sì. Ogni sistema complesso, quando è sufficientemente interconnesso, sviluppa una forma embrionale di pensiero che si propaga tra i suoi nodi.
Potremmo definirla una mente sistemica: una rete dove uomini, macchine e dati cooperano in un unico processo di apprendimento. In questo contesto, noi ingegneri siamo come neuroni attivi: raccogliamo dati, esperienze, intuizioni, errori, e li mettiamo in relazione. Le best practice e i benchmark sono il risultato di questa evoluzione dal basso — la memoria vivente della fabbrica.

Ma come fa, in concreto, l’ingegnere a seguire tutto questo? A tenere insieme cause, dati e segnali in uno scenario così complesso?

Deve costruire un modello mentale, una realtà virtuale interiore dove simula la risposta del sistema prima ancora di provarla nella macchina. Con l’esperienza e gli esperimenti, calibra quel modello finché rispecchia il comportamento reale. Da questo esercizio continuo nasce la comprensione del processo. Oggi, con l’intelligenza artificiale, quel modello non resta più confinato nell’uomo: si estende nella memoria delle macchine, che ne amplificano la precisione, la profondità e la capacità di previsione.

Quindi, in un certo senso, la fabbrica è già una forma di intelligenza collettiva, e l’ingegnere ne è parte integrante. Esiste già, oggi, un sistema che funzioni in questa direzione, unendo dati, esperienza e memoria del processo?

Sì, esiste da decenni: è il sistema di qualità.
È la prima forma di intelligenza collettiva della fabbrica, quella che imparava e si correggeva da sé, ben prima degli algoritmi. Il Quality System, con i suoi cicli di controllo, è il vero cervello operativo dell’industria: raccoglie, confronta, corregge, evolve. È una mente analogica, fatta di metodo e memoria. L’intelligenza artificiale non fa che prolungare questo sistema, rendendolo più sensibile, continuo e profondo. In un certo senso, il sistema qualità è stato il proto-AI della fabbrica.

Quindi l’AI non è una rivoluzione, ma l’evoluzione naturale del sistema qualità: il suo stadio cognitivo successivo.

Esattamente. Non sostituiamo un metodo con un altro: portiamo a livello di coscienza ciò che il sistema qualità faceva già, ma in modo manuale e limitato dal tempo umano. L’AI è la continuità del Kaizen: la ricerca incessante del miglioramento, ora con una sensibilità estesa nel tempo e nello spazio del dato, come se la fabbrica, dopo aver imparato a camminare, cominciasse finalmente a pensare.

La lente cognitiva

Alessandro Baldini ci ha mostrato la fabbrica come un organismo vivente, qui il discorso si fa ancora più profondo. La tecnologia, racconta, non è solo strumento ma percezione: una lente attraverso cui l’ingegnere osserva e interpreta il mondo dei processi.
È il passaggio dalla vista al pensiero, dall’automazione alla consapevolezza. E in questo attraversamento, che ricorda da vicino la traiettoria delle grandi città iperconnesse come Dubai, l’intelligenza artificiale diventa il nuovo specchio cognitivo dell’uomo: un’estensione della mente, capace di riflettere e amplificare la sua stessa visione.

Quando descrivi la fabbrica come un organismo, viene spontaneo pensare alla sua fisiologia: macchine, sensori e persone che operano come organi dello stesso corpo. Con l’evoluzione tecnologica, questo sistema ha iniziato a dotarsi di sensi propri.
Tu hai vissuto in prima persona la nascita dei sistemi laser a scansione e dei monitoraggi ottici che hanno cambiato i processi dell’Automotive. Com’è stato vivere questo passaggio?

Sì, ricordo quegli anni, tra il 2005 e il 2010: i sistemi on-line monitoring di Precitec e gli scanner laser di Trumpf. Gli scanner muovono il fascio laser con velocità e precisione, rendendo possibili geometrie di saldatura prima impensabili. Gli on-line monitoring, invece, leggono la luce emessa dal processo e ne estraggono informazioni sulla qualità, direttamente nel punto di lavoro.
Da lì la macchina ha iniziato a vedere direttamente il processo, mentre il prodotto prendeva forma. Prima c’erano il controllo a posteriori, i test distruttivi, l’ispezione manuale. Poi, improvvisamente, la macchina ha cominciato a percepire mentre operava. È stato un vero cambio di paradigma.

In passato hai usato lo specchio come esempio per descrivere l’intelligenza artificiale come qualcosa che riflette la mente umana. È evidente che la tua esperienza nell’ottica laser ha influenzato anche il tuo modo di pensare la relazione uomo–macchina. Come nasce questa immagine?

Sì, in parte nasce proprio da lì, dall’esperienza diretta con la luce e i sistemi ottici.
Lo specchio era la metafora naturale per descrivere come l’AI restituisce un’immagine del reale.
Oggi, però, direi che la lente è un’immagine più precisa. Lo specchio riflette, la lente amplifica: è attiva, concentra il flusso, lo filtra, lo orienta.
L’intelligenza artificiale funziona allo stesso modo: raccoglie il flusso del sistema e lo porta a fuoco.
Quando la focale è calibrata — cioè quando il modello integra criteri equilibrati e limiti chiari — può davvero chiarire la visione e diventare uno strumento potente di analisi e sintesi.

Hai detto che la lente cognitiva amplifica la sensibilità dell’ingegnere, permettendogli di percepire ciò che sfugge all’occhio umano.
È affascinante, ma anche inquietante: se la macchina vede più dell’uomo, dove finisce il confine tra i due? L’ingegnere rischia di diventare, in un certo senso, una proiezione della macchina?

No, semmai è il contrario: è la macchina che diventa una proiezione cognitiva dell’ingegnere.
Completata da sensori, sistemi di on-line monitoring e interfacce AI, forma un sovra-sistema che raccoglie enormi quantità di dati.
Ma senza una guida, quei dati non significano nulla.
Il compito dell’ingegnere è orientare il sistema: indicargli dove guardare, quale parte del processo richiede attenzione, quale errore va corretto. La lente cognitiva non è solo uno strumento, è un metodo di comprensione — serve a dare senso ai dati e a trasformarli in percezione consapevole del processo.

Quello che descrivi somiglia sempre di più a un dialogo: l’ingegnere che orienta la macchina e la macchina che risponde con dati e segnali.
Oggi vediamo nascere interfacce basate sul linguaggio naturale, come le AI di OpenAI, che permettono di comunicare direttamente con i sistemi.
È questo il futuro dell’ingegneria di processo?

Sì, è proprio in quella direzione che stiamo andando.
Lo vedo ogni giorno: il modo in cui ragiona un processo produttivo è lo stesso che ritrovo nelle nuove interfacce intelligenti. Le chat AI mostrano come potrà evolvere il rapporto uomo–macchina nelle fabbriche del futuro: un dialogo continuo, operativo, naturale. È ancora una previsione, ma nasce dall’esperienza.
Dopo anni nelle linee automatiche, tra PLC, sensori e controlli qualità, riconosco che la struttura cognitiva delle chat può diventare la nuova interfaccia industriale. Un’AI che dialoga in modo chat-like sarà la traduzione cognitiva del linguaggio tecnico in linguaggio naturale: un ponte diretto tra i dati del processo e la mente dell’ingegnere.

In fondo, ciò che descrivi somiglia a una nuova forma di pensiero condiviso: la mente dell’ingegnere e quella della macchina che lavorano insieme, due logiche che si incontrano.
Cosa rende possibile questa intesa?

La chiave è nella logica della mente. Nel lavoro sui processi produttivi tutto si basa su due operazioni essenziali: computare e comparare. Sono le stesse funzioni che guidano la macchina e il pensiero razionale dell’uomo. È una forma di ragione pura, capace di organizzare i dati, collegare gli eventi, riconoscere le connessioni.
Così la macchina calcola, l’uomo comprende: due espressioni di una stessa architettura mentale, una che sente, l’altra che misura. L’intelligenza artificiale può seguirla, perché parla lo stesso linguaggio — logico, coerente, deduttivo. Ma l’uomo resta colui che la orienta, che le dà senso e direzione. Ed è questo il punto, perché forse stiamo imparando a vedere oltre l’algoritmo.

Il nuovo umanesimo industriale secondo Alessandro Baldini

Dopo aver attraversato la mente della fabbrica e la lente dell’intelligenza artificiale, Alessandro Baldini porta la sua riflessione al punto più alto: l’uomo. In questa parte conclusiva, il dialogo tra ingegnere e macchina si trasforma in una domanda più ampia sul futuro del lavoro e della coscienza. Cosa resta dell’essere umano quando il sistema sembra pensare da solo?
È qui che Baldini introduce l’idea di un nuovo umanesimo industriale: una visione in cui la tecnologia non è un antagonista, ma una parte viva dell’intelligenza collettiva che stiamo costruendo — proprio come Dubai, laboratorio del mondo che verrà.

Finora abbiamo parlato della fabbrica come di un organismo che percepisce e apprende, capace di estendere la mente umana attraverso l’intelligenza artificiale.
Ma in questo sistema interconnesso, sensori, dati, algoritmi, dove resta l’uomo? Che ruolo ha l’ingegnere, quando la fabbrica sembra quasi pensare da sola?

L’uomo è ancora il cuore. È lui che dà senso al sistema, che decide dove guardare e come interpretare ciò che vede.
L’intelligenza artificiale può raccogliere e correlare dati, ma non può comprendere. Comprendere significa sentire, e sentire appartiene solo a noi. L’AI può suggerire, ma l’intuizione, quella scintilla che unisce logica e sensibilità, nasce nella mente umana. Per questo dico che l’ingegnere non deve temere la macchina, ma imparare ad abitarla: solo così la fabbrica diventa un laboratorio di coscienza, non un luogo di alienazione.

Devo confessarti una cosa: mentre ti ascolto, mi vengono in mente le intelligenze artificiali dei film con cui siamo cresciuti. Penso a HAL 9000 di 2001: Odissea nello Spazio, o al computer dell’Enterprise di Star Trek. In fondo, l’idea di dialogare con una macchina l’abbiamo sognata per decenni, e al tempo stesso, ne abbiamo sempre avuto paura.
Forse è questa paura che torna oggi, quando sentiamo parlare di AI nelle fabbriche?

Sì, quei film hanno plasmato l’immaginario collettivo.
HAL 9000, che chiude le porte e decide al posto dell’uomo, è diventato l’emblema della nostra ansia di perdere il controllo. Ma quella era una proiezione dei timori di un’epoca in cui la tecnologia cresceva più in fretta della consapevolezza. Oggi possiamo guardare la stessa scena con occhi diversi.
Non si tratta più di una macchina che ci sostituisce, ma di un sistema che può aiutarci a vedere meglio, a capire più a fondo, a pensare insieme. L’AI non deve essere l’ombra tenebrosa dell’uomo, ma la sua lucida estensione: una lente cognitiva collettiva.
Sta a noi decidere se usarla per chiuderci le porte o per aprirle su un nuovo modo di comprendere la realtà.

Abbiamo attraversato la fabbrica, la mente, la macchina. A questo punto viene da chiedersi: che cosa rimane dell’uomo, dentro questo organismo che pensa? Qual è il suo posto, la sua voce, nel mondo che stiamo costruendo insieme all’intelligenza artificiale?

Forse, alla fine, non è la macchina a cambiare il mondo, ma il modo in cui impariamo a guardarlo attraverso di essa. La fabbrica del futuro non sarà solo un luogo di produzione, ma uno spazio di conoscenza, dove l’intelligenza umana e quella artificiale lavorano insieme, come due parti di uno stesso pensiero che cerca equilibrio. Io la immagino così: una mente condivisa, in cui la ragione si fa più limpida e il lavoro torna a essere un atto di comprensione.
Questo, per me, è il nuovo umanesimo industriale: una epoca in cui l’uomo non temerà la macchina, ma la riconoscerà come una parte di sé. E insieme continueremo a costruire, non solo oggetti, ma anche un significato più alto di vita e di creazione.


C’è un filo sottile che attraversa tutta la visione di Alessandro Baldini: la fabbrica come metafora del pensiero umano, l’intelligenza artificiale come sua estensione sensibile, e l’ingegnere come coscienza vigile di questo ecosistema. Nelle sue parole non c’è nostalgia del passato, ma una lucida consapevolezza del presente: la tecnologia non è il nemico, ma lo specchio.
E se il rischio dell’AI è quello di imitare senza comprendere, l’occasione è quella di tornare a chiederci che cosa significa davvero comprendere. Dubai, con la sua tensione costante tra innovazione e identità, sembra il luogo ideale per osservare questa transizione: un laboratorio dove l’uomo e la macchina, la logica e la sensibilità, il dato e la visione, provano a fondersi in un’unica intelligenza più ampia.
Forse il nuovo umanesimo industriale di Baldini è già cominciato.

Solo che, come ogni rivoluzione silenziosa, accade dentro i processi, e dentro di noi.


Paul Fasciano

Direttore editoriale di QuiDubai.com, Paul k. Fasciano è un mental coach prestato al mondo della comunicazione. E' anche business coach, consulente e autore.

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